Il punto sull’industria del venture capital in Italia

30March

Il punto sull’industria del venture capital in Italia

Il 16 marzo 2016 si è tenuto a Milano il convegno annuale dell’Aifi, l’associazione che riunisce i fondi e le società che operano attraverso il capitale di rischio. Nell’occasione sono stati presentati i dati sul mercato italiano relativi al 2015, che si è chiuso con un raddoppio della raccolta e una crescita generale degli investimenti (vedi gli atti dell’incontro). Nel corso dei lavori è intervenuto Claudio Giuliano, partner di Innogest. Pubblichiamo di seguito il testo della sua testimonianza

Mi piacerebbe commentare i numeri dell’industria del venture capital partendo da come questa industria sia chiave per il paese, da come le start-up e la loro innovazione radicale siano indispensabili per il nostro futuro. Viviamo un momento di grande cambiamento ampiamente legato all’innovazione che cambia industrie che eravamo abituati a pensare come consolidate e ne crea di nuove.

Pensiamo all’industria alimentare, dove anche in Italia, anche nei segmenti più tradizionali della ristorazione o della grande distribuzione sono in atto profonde trasformazioni nella catena del valore. Si tratta di nuovi sistemi di prenotazione, consegna a domicilio, ristorazione virtuale, monitoraggio della qualità della filiera.

Pensiamo alla sharing economy che crea risposte nuove a bisogni di servizio per esempio nel trasporto o nell’hotelerie, o nella moda.

Pensiamo all’industria finanziaria. Lì non solo nuove tecnologie da tempo hanno portato gli intermediari sempre più vicini all’utente e in maniera sempre più efficiente, ma oggi nuovi modelli di business potrebbero stravolgere intere categorie. Si pensi al caso della disintermediazione del credito o della consulenza finanziaria dove si sperimentano meccanismi che non erano pensabili solo pochi anni fa. Meccanismi spesso molto raffinati, supportati da rigorosissimi sistemi di risk management e di compliance.

L’innovazione è alla base della salute di un sistema produttivo

Impressiona rilevare come alcuni studi, in particolare del Council on Foreign Relations e della Kauffman Foundation negli Stati Uniti, rilevino che la quasi totalità della net job creation è attribuibile a start-up. Non solo negli Stati Uniti il sistema delle start-up crea più posti di lavoro netti rispetto alle aziende mature, ma questa creazione negli ultimi quaranta anni negli Stati Uniti è stata sorprendentemente stabile, cioè resistente alle crisi economiche. Invece, le imprese mature tendono a distruggere nei periodi di crisi più posti di lavoro di quanti ne riusciranno a creare nei momenti di espansione del mercato.

Non affidiamoci quindi esclusivamente agli allori industriali del passato. La mortalità delle imprese investe anche aziende che sembrano affermate. Prendo ancora dati americani: metà delle società quotate negli Stati Uniti scompare a distanza di 16 anni dalla quotazione.

Il bello dei sistemi innovativi è che quando crescono, crescono molto in fretta. Ben due società con meno di 20 anni di vita negli Stati Uniti (penso a Google e Facebook) capitalizzano ciascuna circa quanto tutte le società quotate sulla Borsa italiana.

Se prendiamo tutte le aziende quotate negli Stati Uniti fondate dopo il ‘74, il 42% sono aziende nate con il supporto del Venture capital.

Tornando in Italia, i numeri del comparto Venture che ci ha esposto Anna Gervasoni, e i numeri delle start-up in Italia, sono cifre in crescita. Il 2015 registra rispetto al 2014 un +74% di ammontare investito e +15% in termini di numero di investimenti.

Dietro i numeri del venture capital in crescita, c’è anche una effervescenza particolare che vorrei raccontare. Vi ha contribuito senz’altro l’attenzione del ministero dello sviluppo economico con vari provvedimenti. Ricordo tra tutti la normativa sulle start-up innovative, e anche provvedimenti meno noti come quello dello start-up VISA per agevolare i visti a imprenditori stranieri. Quei provvedimenti hanno portato soprattutto una maggiore sensibilità verso la filiera dell’investimento in start-up.

Il biennio 2014-2015 ha registrato il maggior numero di closing di fondi di venture capital degli ultimi 15 anni. A questo risultato ha grandemente contribuito lo sforzo combinato del Fondo Italiano di Investimento e del Fondo Europeo di Investimento. E il panorama si amplia e diventa più variegato, come è testimoniato dalle peculiarità di Invitalia Venture, un nuovo fondo che co-investe accanto ad altri operatori del mercato.

La nuova generazione di gestori di fondi di venture capital è costituita da operatori sempre più focalizzati. La specializzazione su alcuni settori come il digitale, le scienze della vita, la robotica, l’industria alimentare, o in alcuni sotto-settori addirittura, sono segni di una Italia del venture capital che non soltanto cresce, ma diventa matura e competitiva. Maggiore specializzazione degli operatori significa migliore capacità di selezione delle start-up target, soprattutto maggiore specializzazione porta una maggiore incisività nello stare accanto all’imprenditore, e conduce a maggiore conoscenza degli interlocutori rilevanti per le exit.

Dietro ai numeri del 2015, ci sono segnali significativi relativi alla qualità delle operazioni. Un dato sulla qualità dei nostri investimenti è legato ad esempio alla presenza di round di investimento sostanziosi sopra i 10 milioni di dollari. Nessuna operazione di venture capital aveva raggiunto singolarmente quei livelli nel 2014, mentre ben sei round di investimento hanno raggiunto i 10 milioni di dollari nel 2015 e in un caso ci siamo avvicinati ai 30 milioni di dollari. E su round di investimento così rilevanti si sono registrate significative presenze di fondi stranieri.

Non è il momento di abbassare la guardia

I numeri del venture capital italiano sono limitati in valore assoluto se raffrontato al nostro PIL. Siamo drammaticamente in ritardo rispetto a paesi comparabili. Il volume degli investimenti in venture capital rimane un ordine di grandezza inferiore a quello di paesi altrettanto rilevanti nello scenario europeo. L’Italia deve recuperare il tempo perduto rispetto agli altri Paesi.

Credo non sia irragionevole porsi come obiettivo per il prossimo triennio che l’ammontare degli investimenti di venture capital in Italia sia almeno pari al 30% di quelli in un paese come la Francia. Questo risultato all’apparenza non così ambizioso significa quasi triplicare i volumi di investimento.

Occorre potenziare la presenza di fondi che agiscano da anchor investor, veri collanti alla raccolta presso la più ampia platea di investitori. Mancano ancora significativamente gli investitori istituzionali nel venture capital. In una corretta asset allocation degli investitori istituzionali, è bene che vi sia una quota piccola ma sempre presente dedicata ai fondi che investono nelle giovani imprese, così come avviene in paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna.

Talvolta, semplificare le norme non costa ed ha grande impatto. Perché ad esempio non introdurre il criterio per cui se un operatore specializzato nel venture crede che una start-up sia innovativa al punto di investirci, allora questa è la prova migliore della sua innovatività?

Infine, l’ecosistema si completa se l’Italia diventa anche un Paese dove le imprese medie e grandi fanno ricerca e innovazione acquisendo quelle piccole e innovative. Negli Stati Uniti le più grandi imprese che fanno innovazione come Microsoft, Google, Facebook,  Apple, Medtronic, Abbott, pur avendo competenze e laboratori di innovazione senza eguali, continuano a sfidare la forza di gravità che tenderebbe ad abbassare i tassi di crescita di imprese grandi, e lo fanno incamerando attraverso acquisizioni società molto più piccole ma oltremodo innovative nei singoli segmenti.

È innegabile che questo non stia avvenendo in Italia. Eppure, è un meccanismo che va incentivato all’inizio, affinché divenga nel tempo abitudine. Occorre pensare a forme di incentivazione, penso a sgravi fiscali, affinché le imprese innovino attraverso acquisizioni.

Una più frizzante propensione all’acquisizione da parte delle nostre grandi imprese ha almeno tre grandi vantaggi:

  • crea un mercato dell’exit che porta liquidità nel mercato del venture capital e di chiunque investe nelle start-up innovative
  • accelera il tasso di innovatività delle nostre grandi imprese
  • permette di tenere in Italia le tecnologie e le menti imprenditoriali che altrimenti, se acquisite da imprese estere, tendono a trasferirsi.

Negli ultimi anni sono stati raggiunti alcuni obiettivi significativi. Occorre non abbassare la guardia se vogliamo che l’Italia nell’Innovazione si trasformi da Paese che rincorre gli altri a Paese leader.

Claudio Giuliano
Twitter: @claudiogiuliano

Posted on 30 Mar 2016